20/04/2024 free
Negata la cittadinanza per detenzione ad uso personale di droghe pesanti (eroina)
Il diniego della cittadinanza motivato dalla detenzione per uso personale di droghe pesanti (eroina) nel triennio antecedente non è irragionevole, considerato che dalla naturalizzazione discende l'assunzione dei diritti politici e l'assunzione dei doveri imposti al cittadino. In questo caso il suddetto diniego è legittimo anche se non si configura una ipotesi di reato.
L'assunzione di sostanze stupefacenti come l'eroina, può compromettere l'attitudine del soggetto ad adempiere ai doveri incombenti sul cittadino, tra cui sia quello di contribuire al progresso socio-economico della Comunità, comportando, anzi, danni alla salute espone al con rischio di divenire un peso per il pubblico erario, sia il sacro dovere di difendere la Patria sancito dall'art. 52 Costituzione.
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T.A.R. Lazio Roma, Sez. V bis, Sent., (data ud. 17/01/2024) 04/03/2024, n. 4259
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Quinta Bis)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 11529 del 2018, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Claudia Fappani, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per l'annullamento
del decreto di rigetto della domanda di concessione della cittadinanza italiana.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 gennaio 2024 la dott.ssa Floriana Rizzetto e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Il ricorrente, di nazionalità indiana, lavora come operaio nel bresciano, ove risiede con la moglie e due figli; in data -OMISSIS- ha presentato istanza di concessione della cittadinanza italiana ai sensi dell'art. 9, comma 1, lettera F) della L. 5 febbraio 1992, n. 91.
L'Amministrazione con nota del 17.5.2018 ha comunicato, ai sensi dell'art. 10 bis della L. n. 241 del 1990, i motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, consistenti in una segnalazione della Questura di Brescia del -OMISSIS- per violazione dell'art. 74 PR 309/90.
Con osservazioni in data 22.5.2018 il ricorrente ha eccepito che il comportamento addebitato non configura un illecito di natura penale (reato), trattandosi di illecito di natura amministrativa, risalente al 2012, per cui risulta incensurato, essendo stato semplicemente invitato dal Prefetto a non far più uso di sostanze stupefacenti; invito cui si è attenuto successivamente, non essendo più incorso in alcun tipo di segnalazione da parte delle forze dell'ordine.
Con il ricorso in esame impugna il D.M. del 28 luglio 2018 con cui il Ministero dell'Interno ha respinto l'istanza di naturalizzazione deducendo i seguenti motivi di censura: violazione dell'art. 6 della L. n. 91 del 1992 e art. 3 L. n. 241 del 1990; eccesso di potere per carenza di istruttoria e di motivazione, travisamento dei fatti.
In vista della trattazione del merito il ricorrente ha depositato una memoria conclusionale in data 19.9.22.
Con ordinanza collegiale n. 12440/22 e 15073/22 sono stati disposti incombenti istruttori.
In data 8.1.2024 si è costituita in giudizio l'Amministrazione intimata, depositando il deposito del fascicolo del procedimento, accompagnato da rapporto difensivo.
All'udienza pubblica del 17.1.2024 la causa è stata trattenuta in decisione.
Costituisce oggetto di impugnativa il provvedimento di diniego della cittadinanza italiana disposto in quanto il ricorrente, tre anni prima della presentazione della domanda di cittadinanza, incorso nel sequestro di una determinata quantità di eroina, detenuta a titolo personale, aveva ricevuto l'ammonizione prefettizia in merito alle conseguenze dell'ulteriore assunzione di sostanze stupefacenti e l'invito a non fare più uso ai sensi dell'art. 75 co 4 del D.P.R. n. 309 del 1990 (Testo unico stupefacenti).
Secondo il ricorrente tale circostanza non costituirebbe una sufficiente causa ostativa alla naturalizzazione, in quanto non rientra né nei reati previsti dall'art. 6 della L. n. 91 del 1992, né in altri illeciti penali, trattandosi di mero illecito amministrativo, costituito da un unico episodio, risalente a tre anni prima, non seguito successivamente, da ulteriori episodi, non gli ha impedito di conseguire l'inserimento socio-lavorativo, che l'Amministrazione non ha in alcun modo considerato, erroneamente ritenendolo un soggetto pericolo per lo Stato italiano.
Il ricorso è infondato alla stregua della giurisprudenza in materia, come ricostruita dalla Sezione sin dalle prime pronunce (TAR Lazio, sez. V bis, n. 2944, 2945, 2946, 3018, 3471, 5130 del 2022), che, con particolare riferimento all'applicazione del principio di proporzionalità ai procedimenti di cittadinanza per residenza (Corte di giustizia UE sentenza R. e seguenti), ha ripetutamente chiarito che l'interesse legittimo dello straniero a mutare la propria nazionalità (o aggiungervi quella dello Stato ospite, ove lo Stato di appartenenza ammetta la doppia cittadinanza) va bilanciato con l'interesse della generalità dei consociati a non ammettere nella Comunità un elemento che non condivide i valori fondamentali su cui questa si regge, tenendo conto della gravità ed irreversibilità delle conseguenze che derivano dall'accoglimento ovvero dal rigetto dell'istanza.
In tale prospettiva va rimarcata la differenza tra i procedimenti di attribuzione automatica per trasmissione della cittadinanza italiana al figlio minorenne dello straniero che sia divenuto connazionale, dell'acquisto della cittadinanza italiana per dichiarazione di volontà del figlio dello straniero divenuto maggiorenne, nato e vissuto in Italia, dell'attribuzione della cittadinanza italiana per matrimonio a richiesta del coniuge straniero, della cittadinanza italiana per la nazionalizzazione dello straniero lungosoggiornante, cui corrispondono diverse situazioni giuridiche soggettive e relativi atti giuridici, che vanno dalla mera trascrizione della dichiarazione di volontà del soggetto da parte dell'Ufficiale dello stato civile, in funzione prettamente notarile ad un vero e proprio procedimento di "concessione" della cittadinanza per residenza.
Va perciò disattesa la prospettazione di parte ricorrente ove presuppone l'equiparazione della posizione di interesse legittimo pretensivo dello straniero alla naturalizzazione ex art. 9 L. n. 91 del 1992 alla posizione di diritto soggettivo del coniuge del cittadino italiano ad essere nazionalizzato ex art. 5 L. n. 91 del 1992 sostenendo che anche al primo sarebbero opponibili, quali motivi ostativi al conseguimento della cittadinanza, unicamente le condizioni preclusive indicate dall'art. 6 della L. n. 91 del 1992.
È evidente che, a fronte di una posizione di vero e proprio diritto soggettivo all'acquisto della cittadinanza del coniuge, l'Amministrazione deve limitarsi ad operare una mera ricognizione della sussistenza dei presupposti prescritti dalla legge, consistenti in requisiti positivi e negativi (in particolare assenza di pregiudizi penali per alcune tipologie più gravi di reato e insussistenza di pericolosità per la sicurezza della Repubblica), che sono espressamente e tassativamente indicati dal legislatore, e, una volta riscontratane l'esistenza, è vincolata ad emanare l'atto richiesto.
Tutt'altra logica giuridica informa il procedimento "concessorio" della cittadinanza per residenza, che ha natura altamente discrezionale per espressa volontà del legislatore, che si è limitato ad una mera norma attributiva del potere, evidentemente in tal modo intendendo non comprimere il potere decisionale dell'Autorità pubblica, al fine di consentirle di adeguare le scelte alle contingenze del momento.
Si tratta di una disciplina che il legislatore non ha inteso modificare nemmeno in sede di riforma - per cui si è di fronte ad una vera e propria lacuna volontaria dell'ordinamento giuridico - pur avendone avuto la possibilità, dato che nel 1992 si è limitato a riformare solo la cittadinanza per matrimonio, introducendo requisiti più stringenti per quanto riguarda il profilo penale, facendo riferimento, in via generale ed astratta, alla pena edittale, anziché - com'era in precedenza - alla pena concretamente irrogata, precludendo in tal modo all'Autorità amministrativa (prima) e al giudice (dopo) di valorizzare le circostanze del reato commesso nello specifico caso concreto in esame.
Mentre il diritto soggettivo all'acquisto della cittadinanza iure communicationis-può essere limitato solo in caso di condanna per i reati espressamente e tassativamente indicati dall'art. 6 della L. n. 91 del 1992 - che sono a fortiori preclusive per l'acquisto della cittadinanza per residenza - oppure ove il richiedente sia considerato potenzialmente pericoloso per la sicurezza della Repubblica, nel caso di richiesta della naturalizzazione per residenza l'Autorità pubblica può opporre alla soddisfazione dell'interesse pretensivo dello straniero non solo esigenze di sicurezza della Repubblica, ma anche mere esigenze di sicurezza pubblica, potendo in tale funzione preventiva includere tutta una serie di comportamenti anche non tipizzati; può prendere in considerazione ulteriori reati rispetto a quelli contemplati dall'art. 6 della L. n. 91 del 1992 - anche a prescindere dagli esiti processuali (dovendosi far riferimento al "fatto storico" in quanto indicatore del grado di condivisione dei valori fondamentali per la Comunità) - nonché illeciti meramente amministrativi e persino comportamenti non tipizzati che possano indurre a ritenere "inopportuno" il suo inserimento nella Comunità (politica) Nazionale, fermo restando l'onere di fornire adeguata motivazione al riguardo (cfr. tra tante, di recente, Cons St., sez. I, 1493/2023; 1370/23, sez. I, 943/2022 e n. 1959/2020; Cons. St., sez. III, n. 1734/2024; 8379/2023; 4754/2023; 4682/2023, 2745/2023, 2486/2023, 2443/2023, 2388/2023, 3117/2022, 104/2022, 4122/2021, 3421/2021, 8133/2020, 7036/2020).
Va perciò disattesa in radice la prospettazione della parte ricorrente, che è tutta incentrata sull'impossibilità di attribuire valenza ostativa a comportamenti che costituiscano meri illeciti amministrativi, dato che, come si è detto, non si tratta di punire il soggetto che si è comportato in modo "indesiderato" , bensì di stabilire se, in un dato momento storico, sia opportuno ammetterlo nella Comunità politica, cioè attribuirgli il potere non solo di continuare a risiedere e lavorare nel nostro Paese - in condizioni di piena parità con i cittadini per quanto riguarda i diritti civili ed i rapporti con le pubbliche amministrazioni - ma anche a determinarne le sorti mediante l'attribuzione dei cd. diritti politici (cioè l'elettorato attivo e passivo al Parlamento Nazionale, la possibilità di assumere cariche pubbliche o di esercitare funzioni o impieghi che ne implichino l'esercizio).
In tale prospettiva va attentamente considerato il comportamento addebitato alla parte ricorrente, dato che il conferimento della cittadinanza italiana a chi fa uso o commercio di tali sostanze, comportando - quale conseguenza principale - l'attribuzione del diritto di voto per eleggere i propri rappresentanti nel Parlamento, consente a questi di influenzare, alternandone gli equilibri, la determinazione delle politiche volte a contrastare il fenomeno, su cui si registrano opposti orientamenti, che dividono non solo i partiti, ma spaccano la stessa opinione pubblica (nonché il mondo degli esperti), incidendo su scelte fondamentali per la vita della Nazione, che sono a tutt'oggi oggetto di vivo dibattito per le loro diverse ripercussioni sociali (cfr. TAR Lazio, sez. V bis, n. 4236/2022).
L'assunzione di sostanze stupefacenti è stata depenalizzata, ma non legalizzata.
Si tratta di un illecito amministrativo: quindi un illecito, ancorché amministrativo e non penale, cioè un comportamento rispetto al quale il nostro ordinamento giuridico, allo stato della legislazione, si esprime con disfavore, attribuendo valore negativo all'assunzione di sostanze stupefacenti, sia in considerazione degli effetti sulla salute, in particolare ove si tratti di droghe cd. pesanti, come quella assunta dal ricorrente (eroina), che comportano un costo a carico della Comunità che deve sopportare le spese per le cure - sia per le conseguenze negative a carico della collettività, sia dirette, dovute all'efficacia delle diverse sostanze (allentamento dei freni inibitori, aumento dell'aggressività, rallentamento dei riflessi con rischio di incidenti in caso di utilizzo di macchinari pericolosi o conduzione di veicoli, etc.), sia indirette, dato che, con l'acquisto, arricchisce le organizzazioni criminali, e può persino comportare il rischio che il soggetto finisca, per procurarsi le dosi necessarie, a collaborare con la criminalità organizzata da cui dipende per il rifornimento, finendo nella rete da questi utilizzata per lo spaccio o per altri crimini.
La depenalizzazione dell'assunzione di tali sostanze non comporta in alcun modo la "neutralità" dell'ordinamento giuridico rispetto a tale comportamento, non costituisce un primo passo verso la legalizzazione in quanto scaturisce piuttosto dalla constatazione dell'inefficacia delle sanzioni penali per fronteggiare il complesso problema della dipendenza da sostanze, oltre che dalla difficoltà della gestione e dai costi insostenibili per il mantenimento nel sistema carcerario di una quota ingente di tossicodipendenti, e si iscrive in un disegno di riforma che include anche misure volte al recupero della persona, consentendone il mantenimento del posto di lavoro nel periodo di cura. Ma quest'ultimo non è l'unico scopo perseguito, essendo il sistema inteso anche a salvaguardare la collettività dai rischi soprarichiamati, incluso quello dell'inserimento del soggetto nei circuiti criminali. Basti pensare che la convocazione della persona colta nell'atto di assumere dette sostanze è fatta presso la Prefettura, cioè presso l'autorità provinciale di pubblica sicurezza, cui spetta il controllo del territorio, la quale, all'esito del colloquio, ammonisce il soggetto delle conseguenze connesse all'uso di sostanze e lo invita a non farne più uso (nei casi di particolare tenuità e limitatamente alla prima segnalazione) oppure a seguire dei programmi di recupero dalla dipendenza ovvero provvedere all'irrogazione delle sanzioni previste dall'art. 75 D.P.R. n. 309 del 1990.
Queste ultime, seppur non aventi il medesimo carattere afflittivo delle misure penali, comportano una restrizione anche di libertà personali di rango preminente, inclusa l'impossibilità di espatriare, di circolare per turismo, di circolare alla guida di veicoli o con armi, con conseguente ritiro (o diniego di rilascio) dei relativi titoli autorizzatori (porto d'armi, patente di guida, passaporto, etc.), che oltre ad avere un effetto afflittivo, in quanto comprimono la sfera giuridica del soggetto, finiscono anche per assumere una funzione preventiva di incidenti, di pericolo per la sicurezza pubblica, etc. Nel caso di stranieri tali condotte vanno comunicate al Questore in quanto rilevano anche per quanto riguarda le valutazioni di competenza in sede di rinnovo del permesso di soggiorno, come precisato dall'art. 75 al comma 8 del citato D.P.R. n. 309 del 1990.
Per quanto specificamente riguarda la naturalizzazione dello straniero, non può ritenersi irragionevole il criterio di giudizio seguito dall'Autorità procedente nel prendere in considerazione tali condotte, valutandole negativamente, in quanto l'assunzione di tali sostanze, oltre ad incidere sulla determinazione delle scelte politiche di settore sopraricordate, influenza anche l'adempimento dei doveri incombenti sul cittadino. A tale riguardo va ricordato che l'assunzione di eroina - sostanza stupefacente appartenente alla classe delle cd. droghe pesanti - compromette l'attitudine del soggetto ad adempiere ai doveri incombenti sul cittadino, che costituisce la "contropartita" del conferimento dei cd. diritti politici, in primis quello di contribuire al progresso socio-economico della Comunità - anzi, comportando danni alla salute espone al con rischio di divenire un peso per il pubblico erario - ed il "sacro dovere di difendere la Patria" sancito dall'art. 52 Costituzione.
Lo status di cittadino, conferito con DPR (provvedimento che non ha natura di concessione, ma di vera e propria ammissione ad una Comunità politica di riferimento), previo parere del Consiglio di Stato (eliminato indirettamente nell'ambito delle recenti norme di semplificazione generale dei procedimenti amministrativi), all'esito di un procedimento complesso, culminante nella "cerimonia" del giuramento, consiste in un complesso intreccio di diritti e doveri che rileva soprattutto sul piano del diritto costituzionale e internazionale.
Risulta perciò inconferente prospettare una "discriminazione" dello straniero rispetto al cittadino, dato che, più che di "disparità di trattamento", si tratta di piuttosto di una distinzione fondamentali, che costituisce il proprium della nozione di cittadinanza, che caratterizza il regime giuridico differenziato rispetto allo straniero, e che non consiste solo nell'attribuzione di posizioni di favore, ma anche nell'assunzione di obblighi di diritto pubblico che gravano solo sul connazionale.
Per cui non giova invocare che "non si può pretendere dallo straniero un quantum di moralità maggiore rispetto al connazionale", dato che si tratta di due posizioni assolutamente non assimilabili dal punto di vista ontologico, ancor prima che giuridico, dato che lo straniero può far ingresso e risiedere in uno Stato diverso rispetto a quello di appartenenza solo con il consenso dello Stato ospite, con il rilascio del visto d'entrata e del permesso di soggiorno, che possono essere esclusi ove questi possa comportare inconvenienti a carico della Comunità che lo accoglie, a differenza del cittadino che non può essere allontanato dallo Stato di appartenenza essendo l'esilio, nemmeno ove commetta i reati più gravi; del pari lo straniero, in caso di guerra, è libero di ritornare allo Stato di appartenenza o rifugiarsi in altri Paesi, mentre il cittadino è tenuto a combattere per la Patria e, se tentasse di espatriare per sottrarsi alla mobilitazione generale, incorrerebbe in sanzioni anche penali.
Non può perciò ritenersi irragionevole il criterio di giudizio seguito dall'amministrazione nel prendere in considerazione, valutandole sfavorevolmente, la condotta addebitata al ricorrente nella formulazione del giudizio prognostico ad essa demandata in merito all'opportunità di naturalizzazione dello straniero, data la valenza sintomatica dell'adesione a valori fondamentali per la coesione sociale della Comunità in cui chiede di essere ammesso, ritenuta non illogicamente rilevante sotto il profilo sostanziale e significativa anche sotto il profilo cronologico, per quanto riguarda la sua collocazione temporale. A quest'ultimo riguardo va osservato che il sequestro della sostanza stupefacente in parola (del tipo eroina) risale al -OMISSIS-, a ridosso della presentazione dell'istanza di cittadinanza (avvenuta il -OMISSIS-), quindi ricade nel periodo di osservazione in cui chi aspira a conseguire la naturalizzazione deve dimostrare di aver maturato un elevato grado di integrazione e condivisione dei valori fondamentali per la Comunità politica cui chiede di essere ammesso, essendo il requisito minimo della residenza "legale" per dieci anni inteso come comportamento "senza ombre" protratto per almeno un decennio (tanto più che, nel caso di uso di tali sostanze, non si può escludere il rischio di "ricadute").
D'altronde, data la natura "dinamica" che caratterizza il procedimento di naturalizzazione, il provvedimento di rifiuto della cittadinanza fondato su elementi negativi verificatisi nell'arco temporale considerato, non preclude la possibilità dello straniero di ripresentare l'istanza (art. 5 co. 2 D.P.R. n. 572 del 1993), una volta superato il periodo di osservazione, facendo valere gli elementi favorevoli nel frattempo sopravvenuti, a dimostrazione dell'avvenuto conseguimento di un adeguato grado di integrazione, anche sotto il profilo dell'assimilazione dei valori fondamentali per la coesione sociale.
In conclusione l'operato dell'Amministrazione risulta pertanto immune dalle censure dedotte e pertanto il ricorso va respinto.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Quinta Bis), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna la parte ricorrente a rifondere al Ministero dell'Interno le spese di lite, liquidate nella misura complessiva di €. 1.500, oltre agli accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679PARLAMENTO EUROPEO, Reg. (CE) 27/04/2016, n. 2016/679/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte ricorrente.
Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 gennaio 2024 con l'intervento dei magistrati:
Floriana Rizzetto, Presidente, Estensore
Enrico Mattei, Consigliere
Antonietta Giudice, Referendario