24.10.2018 free

 

Delitto di peculato del medico dipendente di un ospedale pubblico.

integra il delitto di peculato la condotta del medico dipendente di un ospedale pubblico il quale, svolgendo in regime di convenzione attività intramuraria, dopo aver riscosso l'onorario dovuto per le prestazioni, ometta poi di versare all'azienda sanitaria quanto di spettanza della medesima, in tal modo appropriandosene.

Anche la Corte dei conti ha più volte attribuito al medico che opera in regime di intra moenia la veste di "agente contabile", con conseguente obbligo sia di dover rendere conto dei valori che egli "maneggia", che di custodirli e restituirli.

Gli importi corrisposti al sanitario nell'esercizio di attività intramoenia acquistano natura pubblica, in virtù della convenzione tra la ASL e il medico dipendente.

 

Cassazione Penale Sez. VI, Sent. N.  40908  del 24.09.2018

 

omissis

 

Svolgimento del processo

 

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello dell'Aquila confermava parzialmente la sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale della stessa città che, all'esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato D.D. responsabile del reato di peculato continuato, condannandolo alla pena ritenuta di giustizia, ed in particolare limitava alla somma di Euro 342 l'oggetto dell'appropriazione, riducendo quindi anche l'entità della somma confiscata e rideterminando la somma liquidata a titolo di risarcimento.

All'imputato era stato contestato di essersi appropriato, quale medico dipendente dell'ASL, in regime di rapporto esclusivo, della somma - della quale aveva la disponibilità per ragioni di servizio - di circa 25 mila Euro, in ragione degli elementi positivi di reddito sottratti a tassazione per tra il 2008 e il 2013.

Era stato accertato che l'imputato, autorizzato ad esercitare la attività di libero professionista in regime intra moenia, percependo l'indennità versatagli dal S.S.N. a titolo di regime esclusivo, in alcuni casi di attività professionale svolta in tale regime non aveva riversato est al Servizio sanitario nazionale, trattenendole per sè, le somme di spettanza sugli onorari percepiti.

In primo grado, il Giudice dell'udienza preliminare aveva ritenuto non provata l'ipotesi accusatoria, secondo cui dovevano imputarsi, come "sottratti", tutti gli introiti presenti su conti correnti dell'imputato, pari alla somma indicata nel capo di imputazione, che non avevano trovato giustificazione. Pertanto aveva limitato la condotta appropriativa a soli cinque casi, con riduzione della somma contestata in quella di 570 Euro, ricavabile dalle dichiarazioni di alcuni pazienti visitati dall'imputato.

In sede di appello, l'imputato aveva denunciato la diversità del fatto ritenuto in sentenza, posto che rispetto all'originaria contestazione che correlava il mancato versamento a somme derivanti da infedele dichiarazione dei redditi, il primo giudice aveva fatto invece riferimento alle dichiarazioni di pazienti in ordine a versamenti effettuati in attività di intra moenia.

Aveva inoltre contestato la configurabilità del peculato, perchè ne difettavano tutti gli elementi, in particolare sostenendo che l'illecito fiscale potesse concretizzare il reato di cui all'art. 314 cod. pen. e che non fosse raggiunta comunque la prova dell'ammontare delle somme oggetto di omesso versamento.

La Corte di appello escludeva che si fosse accertato un fatto diverso, avendo il primo giudice soltanto ridotto l'importo originariamente contestato, e confermava l'esatto inquadramento del fatto nell'ambito della fattispecie penale contestata, non configurando il versamento delle somme percepite in regime intra moenia una prestazione meramente tributaria. Quanto alla prova del fatto, la Corte di appello richiamava le dichiarazioni rese dai pazienti, mentre riduceva la somma oggetto di appropriazione, in quanto sugli onorari percepiti doveva essere dedotta la somma spettante al professionista, pari al 40%.

2. Avverso la suddetta sentenza, ricorre per cassazione, a mezzo del suo difensore, l'imputato, deducendo i motivi di seguito sintetizzati ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen..

2.1. Violazione di legge in relazione agli artt. 314 e 357 cod. pen..

La Corte di appello avrebbe erroneamente qualificato come peculato la infedele dichiarazione dei redditi (tanto che il P.M. aveva formulato richiesta di assoluzione): nella condotta di dichiarazione infedele difetterebbe la appropriazione, l'elemento psicologico e la qualifica soggettiva (quale dichiaratore di reddito l'imputato è un privato cittadino).

2.2. Difetto assoluto di motivazione in relazione agli artt. 125 e 546 cod. proc. pen. e vizio di motivazione in relazione agli artt. 192 e 234 cod. proc. pen..

La Corte di appello non avrebbe spiegato i motivi del rigetto della tesi difensiva della non configurabilità della infedele dichiarazione come peculato.

In modo contraddittorio avrebbe poi la stessa Corte di appello ritenuto la sussistenza della qualifica soggettiva, collocando la stessa solo al momento non della dichiarazione dei redditi ma della recezione delle somme nell'attività intramuraria. Inoltre in modo immotivato avrebbe fatto riferimento al momento dell'assunzione di detta qualifica ("all'epoca") senza tuttavia indicare alcun dato temporale.

La Corte di appello, nel disattendere l'eccezione di mutamento del fatto contestato, avrebbe comunque ricondotto la minore somma ritenuta alla originaria somma indicata in imputazione (ovvero quella infedelmente dichiarata) e non al mancato riversamento delle somme ricevute dai cinque pazienti.

In tale prospettiva, la Corte di appello non avrebbe risposto adeguatamente alle eccezioni difensive sia in ordine alla prova della condotta, meramente desunta dal fatto che l'imputato non ebbe a rilasciare alcuna ricevuta fiscale e dalle dichiarazioni dei pazienti, che non dimostrano affatto il mancato riversamento al S.S.N., sia in ordine all'omessa esplicitazione delle ragioni di inattendibilità delle produzioni difensive (attestanti il versamento all'ASL da parte dell'imputato di tutte le somme calcolate sugli importi fatturati).

 

Motivi della decisione

 

1. Il ricorso è inammissibile.

2. L'impugnazione si snoda invero sull'erroneo presupposto che all'imputato sia stato contestato un illecito tributario.

L'assunto, come correttamente hanno spiegato i giudici del merito, è del tutto infondato.

Nel capo di imputazione infatti la condotta contestata ha chiaramente ad oggetto la condotta appropriativa realizzata attraverso il mancato versamento di danaro al S.N.N., di cui l'imputato aveva la disponibilità in quanto "autorizzata" dalla ASL, attraverso il regime intra moenia.

Non vi è alcun riferimento alla "infedele dichiarazione". Come chiarito sin dal primo grado il riferimento agli "elementi positivi di reddito sottratti a tassazione" era stato effettuato dal P.M. solo al fine di stabilire la somma oggetto di appropriazione, desumendola dalle somme rinvenute in possesso dell'imputato e non giustificate.

Tale tesi, in quanto basata su un ingiustificato automatismo probatorio, è stata ritenuta infondata dal primo giudice, riconducendo la somma oggetto di peculato a quella effettivamente percepita e non riversata (entità ulteriormente corretta dal giudice dell'appello, tenuto conto della sola parte imputabile al S.N.N.).

3. Quindi, una volta chiarito l'oggetto della contestazione, la Corte di appello ha risposto del tutto adeguatamente alle critiche difensive, tanto in ordine alla qualifica soggettiva ("all'epoca" si riferiva chiaramente al periodo in contestazione) quanto in ordine alla prova dell'appropriazione.

Relativamente in particolare alla prova, la Corte di appello ha fatto riferimento alle acquisizioni della Guardia di Finanza che avevano raccolto le dichiarazioni di 5 pazienti del ricorrente: per tali visite non era state reperite o prodotte le ricevute fiscali (dato non contrastato dalla difesa con una diversa produzione).

La tesi difensiva verteva sulla non incontrovertibile prova della fatturazione (e quindi del mancato versamento).

Sul punto, vengono in considerazione i principi più volte affermati in sede di legittimità in tema di maneggio del denaro pubblico, attività che impone al soggetto attivo il generale obbligo di rendicontare o giustificare il relativo svolgimento secondo le precipue finalità istituzionali.

Obbligo che non comporta ovviamente l'applicazione di un unico modello di disciplina ed organizzazione della spesa pubblica, risultando comunque incompatibile con la Costituzione l'ipotesi di un potere di maneggio di denaro pubblico sottratto ad ogni tipo di controllo - di natura amministrativa o giurisdizionale - esterno a chi concretamente ne dispone.

Da tale premessa, questa Corte ha pertanto affermato il principio di diritto che costituisce delitto di peculato l'utilizzazione di denaro pubblico, quando non si dia giustificazione certa - secondo le norme generali della contabilità pubblica ovvero quelle derogative previste dalla legge nella singola fattispecie - del loro impiego, in caso di incameramento delle somme (tra tante, Sez. 6, n. 23066 del 14/05/2009, Provenzano, Rv. 244061).

In base al R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 74 "Gli agenti incaricati della riscossione delle entrate e dell'esecuzione dei pagamenti delle spese, o che ricavano somme dovute allo Stato e altre delle quali lo Stato diventa debitore, o hanno maneggio qualsiasi di denaro ovvero debito di materia, nonchè coloro che si ingeriscono negli incarichi attribuiti ai detti agenti, dipendono direttamente, a seconda dei rispettivi servizi, dalle amministrazioni centrali o periferiche dello Stato, alle quali debbono rendere il conto della gestione e, sono sottoposti alla vigilanza del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e alla giurisdizione della Corte dei conti".

La Corte dei conti ha più volte attribuito al medico che opera in regime di intra moenia la veste di "agente contabile", con conseguente obbligo sia di dover rendere conto dei valori che egli "maneggia", che di custodirli e restituirli (tra tante, Corte conti, Sez. Marche, sent. n. 78 del 24/03/2011; Sez. Puglia, n. 49 del 17/02/2010; Sez. Lazio, sent. n. 109 del 23/01/2008; Sez. Abruzzo, sent. n. 857 del 20/11/2007).

Gli importi corrisposti al sanitario nell'esercizio di attività intramoenia acquistano infatti natura pubblica, in virtù della convenzione tra la ASL e il medico dipendente.

Questa Corte di legittimità a sua volta ha affermato in numerosi arresti che integra il delitto di peculato la condotta del medico dipendente di un ospedale pubblico il quale, svolgendo in regime di convenzione attività intramuraria, dopo aver riscosso l'onorario dovuto per le prestazioni, ometta poi di versare all'azienda sanitaria quanto di spettanza della medesima, in tal modo appropriandosene (per tutte, tra le tante, Sez. 6, n. 29782 del 16/03/2017, Tenaglia, Rv. 270556; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253098; in una fattispecie del tutta analoga alla presente, Sez. 6, n. 27954 del 16/06/2016, Strozzieri, non mass.).

Così inquadrata la fattispecie, la Corte di appello ha fornito corretta ed adeguata risposta ai rilievi difensivi sulla prova della appropriazione, rilevando che non risultavano nè prodotte nè altrimenti acquisite le ricevute fiscali relative alle prestazioni la cui effettuazione risultava pienamente provata sulla base delle dichiarazioni dei pazienti. Pertanto provato l'impossessamento della somma versata dai pazienti per la prestazione professionale in regime intramurario, il ricorrente non aveva in alcun modo dimostrato di aver rendicontato, come dovuto, la gestione della somma.

Quanto poi alle prove, secondo il ricorrente, non considerate, il relativo motivo, oltre che esposto genericamente, appare esulare il tema devoluto con l'appello, che non conteneva alcun riferimento specifico a tali prove, avendo piuttosto il ricorrente contestato il difetto probatorio in ordine all'effettivo versamento da parte dei pazienti di Euro 570 da parte di pazienti visitati. Le richiamate prove, secondo il ricorrente, avrebbero invece dimostrato il versamento delle somme all'ASL degli importi calcolati sulle ricevute emesse dall'imputato e trasmesse all'ASL. 4. Deve ritenersi inammissibile infine anche la produzione documentale presentata all'udienza pubblica del 19 giugno 2018.

Secondo un consolidato principio, nel giudizio di legittimità possono essere prodotti esclusivamente i documenti che l'interessato non sia stato in grado di esibire nei precedenti gradi di giudizio, sempre che essi non costituiscano nuova prova e non comportino un'attività di apprezzamento circa la loro validità formale e la loro efficacia nel contesto delle prove già raccolte e valutate dai giudici di merito (tra le tante, Sez. 3, n. 5722 del 07/01/2016, Sanvitale, Rv. 266390).

Non è quindi ammissibile la produzione in sede di legittimità di "documenti nuovi" attinenti al merito, dal momento che la Corte di Cassazione non deve mai procedere ad un esame degli atti, ma solo alla valutazione circa la esistenza della motivazione e della sua logicità (ex multis, Sez. 5, n. 10382 del 09/06/1999, Calascibetta G, Rv. 214298).

Nella specie, la produzione - avente ad oggetto l'archiviazione da parte dell'Agenzia dell'Entrate delle violazioni rilevate per gli anni di imposta dal 2011 al 2013 - appare viepiù ictu oculi irrilevante, in quanto relativa ad accertamenti "tributari" e comunque relativi ad un periodo non coincidente con quello in contestazione.

5. Alla declaratoria di inammissibilità segue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento a favore della cassa delle ammende della somma a titolo di sanzione pecuniaria, che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo quantificare nella misura di Euro 2.000.

Consegue, ancora, la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel grado a favore della parte civile costituita, liquidate come indicato nel dispositivo.

La Cancelleria provvederà alle comunicazioni di rito.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della cassa delle ammende, nonchè alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa della parte civile, ASL n. X., in questa fase, che si liquidano in complessivi Euro 3.500, oltre spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 154-ter disp. att. cod. proc. pen..

Così deciso in Roma, il 19 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2018

 

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